La migrazione femminile: un fiume silenzioso
La migrazione è al centro del dibattito internazionale sulle questioni urgenti di attualità. Tuttavia, è raro che se ne parli da una prospettiva di genere. Eppure, già nel 2006 il Rapporto UNFPA definiva la migrazione femminile un «fiume possente ma silenzioso», una rivoluzione in espansione di movimento e di empowerment che resta in gran parte invisibile. In base alle statistiche, negli ultimi decenni le donne hanno rappresentato la percentuale maggiore del totale della popolazione migrante nel mondo, determinando il fenomeno della “femminilizzazione” dei flussi migratori. Secondo recenti studi condotti dall’European Institute for Gender Equality (EIGE), generalmente le ragioni della migrazione sono lo studio, il lavoro, il ricongiungimento famigliare, il sostentamento dei propri cari nella madrepatria, nonché le varie forme di persecuzione e i motivi economici. D’altro canto, nei processi migratori la componente femminile è ritenuta fortemente vulnerabile, poiché è esposta a rischi e insicurezze diversi rispetto agli uomini.
In Italia, la Fondazione ISMU calcola che dal 1° gennaio 2005 al 1° gennaio 2020, il numero di donne immigrate è aumentato del 141% (contro un incremento degli uomini del 112%), anche se va sottolineato che i dati variano a seconda della nazionalità di origine. Eppure, lo status migratorio, associato alla discriminazione di genere, le costringe a un tasso di disoccupazione che è quasi il doppio rispetto a quello degli uomini. Se questo riguarda nello specifico i casi di migrazione per ricongiungimento famigliare, non si può negare l’esistenza di barriere che ostacolano l’accesso al mercato del lavoro. Il mancato riconoscimento delle qualifiche acquisite nella madrepatria relega le donne migranti al lavoro domestico o di assistenza, mentre solo basse percentuali esercitano una professione intellettuale o impiegatizia, talvolta con un contratto a tempo determinato. Questo è vero, se si considera che i programmi di ammissione tendono a privilegiare le professioni legate a settori produttivi come l’ingegneria o la finanza, in cui la rappresentanza femminile scarseggia.
Vi sono ancora molte donne che percepiscono redditi inferiori alla soglia minima garantita, soprattutto se costrette a condizioni di lavoro irregolari che le espongono a gravi forme di sfruttamento e di abuso. Non è un caso che si parli di “segregazione” occupazionale delle donne immigrate, che in Italia assorbe oltre 4 straniere su 10, e che è strettamente legata alla fortissima etnicizzazione del profilo della colf e dell’assistente domiciliare. Le conseguenze sul benessere psico-fisico di queste figure sono ampiamente sottovalutate, ed è un rischio che si è certamente esacerbato in questi mesi di emergenza sanitaria. Questo è un paradosso, se gli studi sull’evoluzione delle migrazioni affermano che le donne migranti non solo sanno costruire “reti” organizzate sul territorio, all’interno delle quali mettono in campo le loro competenze lavorative, culturali e relazionali, ma hanno anche la capacità di gestire le rimesse, fonte di crescita economica per i Paesi d’origine. Ciononostante, insieme ai giovani, continuano a far parte di un immenso segmento di forza lavoro potenzialmente impiegabile ma non utilizzata.
Il Rapporto della Fondazione ISMU 2020 ha rilevato che, in particolare, le giovani donne straniere sono più NEET – Not in Education, Employment or Training – ossia non studiano né lavorano, per la precoce età con cui assumono ruoli “riproduttivi” e per la forte incidenza in molte comunità immigrate del modello del “male breadwinner”. Secondo il modulo ad hoc “Famiglia e lavoro”, inserito dall’Istat nella rilevazione continua sulle forze di lavoro, il 32,9% delle extracomunitarie dichiara di dover far fronte a esigenze famigliari e assistenziali non retribuite, ma oltre la metà si dichiara indisponibile al lavoro.
Lo scenario è completato dalla piaga del traffico degli esseri umani, che penetra nei flussi migratori e attira donne giovanissime, provenienti dalle zone più svantaggiate dell’Africa (e del resto del mondo), nella spirale della prostituzione, con la promessa di una vita dignitosa in Europa e della possibilità di sostenere la famiglia nella terra d’origine. Una costante di questa problematica è l’analfabetismo: le storie di donne rubate alla loro gioventù e sfruttate dal mercato illegale del sesso, hanno in comune la mancanza dell’istruzione anche a livelli elementari. Di frequente, si tratta di ragazze minorenni tolte alle loro famiglie (ma le circostanze non sono mai del tutto chiare) e inserite in un contesto di violenze e abusi, in cui crescono e spesso si adattano, diventandone parte integrante. La necessità di sostenere e migliorare l’istruzione nelle aree economicamente depresse del mondo si fa sempre più urgente.
Dal punto di vista culturale, la migrazione delle donne nella società occidentale interseca diverse variabili, come l’odio razziale e le discriminazioni di genere. Ma è interessante osservare che tra la prima e la seconda generazione di immigrate spesso si forma un gap, dovuto al progressivo adattamento, soprattutto da parte delle ragazze, al nuovo sistema di valori. Mentre questo vale anche per la componente maschile della popolazione migrante, quella femminile passa attraverso veri processi di emancipazione, in particolare se le culture di provenienza sono caratterizzate da schemi fortemente patriarcali, nelle quali le donne non sono libere di prendere decisioni sul proprio corpo e sul proprio futuro. Tuttavia, la questione è carica di ambiguità, basti pensare ai continui dibattiti sull’uso del velo in diversi Paesi europei, come la Francia o la Svizzera, quest’ultima fresca di referendum, in cui le donne di religione musulmana hanno il divieto di indossare burqa e niqāb all’interno delle strutture pubbliche.
Il genere è una variabile cruciale nell’ambito delle politiche migratorie. Il nostro auspicio è che si presti la giusta attenzione alla migrazione femminile, per garantire l’empowerment delle donne migranti e la loro integrazione nella società, nel rispetto delle culture di appartenenza e dei loro diritti.