L’università distante
Autore: Marzia Frigerio
Saluto e ringrazio la professoressa, sorridendo direttamente alla webcam, per dare il più possibile l’impressione di un contatto visivo e diretto, mentre sorrido e ripeto “grazie ancora, arrivederci” cerco con il cursore la casella rossa “abbandona” e la clicco, facendo sparire la professoressa. Tiro un sospiro e smetto di sorridere al pc. Ormai è quasi diventata un’abitudine fare lezione e ricevimento in pantofole, con la tazza di cereali vicino al computer la mattina presto. Credo, tuttavia, che qualsiasi studente almeno una volta in questi mesi si sia fermato, davanti a quello schermo per riflettere qualche minuto, per (ri)cercare un senso o semplicemente per ripensare a questi mesi. Da marzo l’epidemia ci ha costretti alla didattica a distanza; i primi mesi, vivevamo un clima di emergenza, eravamo mossi da un’euforia data dall’idea per cui ognuno doveva fare la sua parte, sentendo di appartenere a un processo volto al far “andare tutto bene”. Inizialmente era quasi piacevole, il non dover prendere treni affollati, perennemente in ritardo, non dover sedersi a terra nelle piccole aule che non riuscivano ad ospitarci tutti. Le prime volte in cui potevamo alzarci dieci minuti prima della lezione e farla in pigiama perché tanto “non è obbligatorio accendere la videocamera”; o ancora non doversi svegliare affatto perché “tanto è registrata, la posso seguire quando voglio”. Tuttavia, mi ritrovo a scrivere dopo circa dieci mesi di questa DAD. Ma qualcosa è cambiato nella mia percezione. Forse è stato proprio l’aver svolto il tirocinio in qualità di mentore per il progetto ‘Mentorship – verso una rete italiana di università inclusive’ che mi ha portata a riflettere più a fondo e in modo diverso su questa nuova forma di università a distanza. Il progetto, infatti, promosso dall’OIM (organizzazione internazionale per la migrazione) ha come obiettivo la realizzazione di una rete di università volte all’integrazione, allo scambio interculturale e alla solidarietà peer to peer. È la partecipazione a questo progetto a distanza che mi ha inevitabilmente portata a pormi alcune domande:
– Che cosa significa essere uno studente straniero o in Erasmus nell’anno accademico 2020-2021?
Il nostro progetto ha principalmente a che fare con gli studenti dal background migratorio. L’esperienza migratoria è da sé un’esperienza complessa, di adattamento e alle volte di smarrimento; le norme in vigore degli ultimi mesi hanno acuito la complessità di questa esperienza. L’università ricopre un ruolo importantissimo per gli studenti stranieri e i luoghi dell’università come le classi, i cortili, le aule studio, le biblioteche e i bar universitari sono un ponte verso la socializzazione per tutti gli studenti, stranieri e non. Si è trovata una sorta di soluzione per quanto riguarda le classi, attraverso le lezioni su Microsoft Teams, sebbene la maggior parte delle volte si vedano solo indirizzi e-mail di account dal microfono e la videocamera spenta. Non vi sono tuttavia mezzi in grado di sostituire il resto dell’università. Il motto della Gestalt “Il tutto è più della somma delle singole parti” esprime bene questo concetto: è sufficiente che ci sia un docente, delle slides condivise e una platea di studenti connessi per “fare università”? decisamente no. Per uno studente straniero l’università diventa luogo in cui conoscere persone nuove, persone con cui poter uscire, svagarsi, scoprire la città, essere incluso nelle squadre di calcetto, chiedere aiuto per compilare la domanda per l’abbonamento ai mezzi di trasporto o per reperire dei libri di testo che non riesce a trovare. Quest’intera parte di università si è ridotta quest’anno a gruppi WhatsApp di decine di numeri sconosciuti e a scambi di e-mail con i professori. Ovviamente non era possibile mantenere quella ‘parte’ di università integra o aperta a causa delle normative anti-contagio; ma il mio tirocinio per questo progetto mi ha portata a immaginare l’esperienza di studente straniero in questo anno particolare e di conseguenza la vertiginosa perdita di senso, di concretezza e di comunità che devono vivere gli studenti migrati in Italia. “Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori” cantava De André, ed è proprio da questo periodo di ‘letame’, per essere eleganti, che attraverso il progetto Mentorship, siamo riusciti a far crescere qualche fiore. Attraverso l’organizzazione di eventi, di giochi, di quiz, di appuntamenti per il supporto didattico a distanza, siamo stati, spero, in grado di restituire a questi studenti quella parte di università che si era smarrita nello smart studying. Aprendo un canale di comunicazione e delle piattaforme nel tentativo di ridare vita anche a quella parte di università che contribuisce a fare “il tutto” come più della somma delle parti. Abbiamo innanzitutto conosciuto questi ragazzi, le loro storie e i loro percorsi di studio che alle volte ci accomunavano; abbiamo conosciuto le loro difficoltà, sia con la DAD che con le materie o i professori; abbiamo insegnato loro la tombola napoletana a Natale e abbiamo giocato insieme a loro quando tutti eravamo costretti a casa. Abbiamo in qualche modo ricreato il cortile, il bar e i corridoi delle università per tornare ad essere, sia noi che loro, studenti universitari nelle mille sfaccettature che questo ruolo ha. Ci siamo inteneriti, davanti alla loro gratitudine espressa in centinaia di ‘grazie’ ripetuti per aver trovato un canale che si interessasse a loro, che desse spazio al poter conoscere altri studenti, a poter chiedere un supporto didattico o amministrativo, a poter “fare università” anche senza i professori.
– Che cosa significa essere una matricola nell’anno accademico 2020-2021?
Non da meno, tutti gli studenti classe 2001, hanno affrontato sia l’anno della maturità che l’inizio dell’università in DAD. Vale anche per loro la vertiginosa perdita di senso. Lezioni che si susseguono online, nessun palazzo universitario conosciuto o davvero vissuto, nessun nuovo amico, se non uno dei contatti del gruppo WhatsApp “Matricole Unior 2020-2021” particolarmente simpatico; nessun esame sostenuto faccia a faccia con un professore e nessuna sveglia presto per prendere i mezzi affollati e ritardatari per arrivare in aula in orario. Ripenso al mio percorso universitario, alla mia immatricolazione, alla mia prima lezione, alle prime ragazze a cui ho rivolto la parola e mi accorgo di quanto oggi si perdano le matricole. Ogni passaggio di ciclo scolastico ha il suo significato: dalle materne alle elementari; dalle elementari alle scuole medie; dalle medie al liceo e dal liceo all’università. L’università, forse più di tutte le altre, è il salto più consapevole: è una delle prime grandi scelte che si fanno da maggiorenni; è un impegno a lungo termine; è un luogo che farà da seconda casa per almeno tre anni; sono delle persone che ci faranno crescere; è uno dei primi grandi traguardi personali degno di grandi festeggiamenti. Come percepisce oggi l’università una matricola che non ha mai assaporato gli altri aspetti dell’università? Io avverto una mancanza, di qualcosa che ho provato e vissuto per 4 dei miei 5 anni di studio; ma chi non ha mai vissuto l’università in presenza, avverte una qualche mancanza oppure no? Mi spaventa sapere la risposta, mi spaventa l’idea che forse stiamo abituando delle generazioni a quest’idea di comunità connessa che ci lascia invece soli davanti a uno schermo, ci vende l’illusione di offrirci lo stesso servizio in modo più comodo, quando questo, lo stesso servizio non è affatto. Per questo motivo, mi ha rallegrato molto vedere connettersi ai nostri eventi on-line giovani matricole, non straniere, che erano entusiaste del nostro progetto e rammaricate di conoscere poche persone all’interno dell’università in cui purtroppo non hanno ancora letteralmente messo piede. Credo che sia importante e necessario creare degli spazi, seppur non prettamente formativi, ma semplicemente ludici, di svago, di dibattito per mantenere vivo questo aspetto dell’università, l’aspetto della socialità, dell’apertura e dell’incontro, perché la crescita personale avviene anche attraverso tutto questo.
– Che cosa significa insegnare nel 2020-2021?
‘Insegnare’ è un termine che deriva dal tardo latino e significa: incidere, imprimere dei segni nella mente. Un termine apparentemente molto pulito e figurativo: insegnare l’alfabeto come un processo in grado di imprimere dei segni nella mente di qualcuno. Eppure, anche questa volta ‘il tutto è più della somma delle singole parti’. Insegnare non significa meramente trasmettere informazioni. Non è sufficiente. Tutti abbiamo avuto nella nostra carriera professori migliori di altri; professori che solo grazie alle loro capacità oratorie, alla loro passione, alla loro presenza scenica sono stati in grado si appassionarci all’epica, alla scienza, alla letteratura o all’arte. Sono stati in grado, più di altri di lasciare il segno e contribuire a quello che siamo oggi.
Mi chiedo cosa significhi per i professori quest’annata. Il confrontarsi per molti di loro con le piattaforme tecnologiche; la mancanza dello sguardo degli studenti, fondamentale nel processo di insegnamento-apprendimento; mi chiedo se per loro sia ancora possibile accendere dubbi, domande, idee o se ormai ad accendersi sono solo i monitor.
– Che cosa significa laurearsi nel 2020-21? Ed ecco qui, la categoria di cui faccio personalmente parte. Io che sono una studentessa italiana, immatricolata per la prima volta nel lontano anno accademico 2015-2016 nell’università in presenza. Io che ad oggi sento la mancanza di svegliarmi la mattina per affrontare il freddo, per passeggiare tra i vicoli di Napoli e arrivare davanti a Palazzo Corigliano alle 10; incontrare qualche amica e prendere un caffè a Piazza San Domenico prima di andare a lezione, chiacchierare della sera prima, del compito per la lezione, perdere la cognizione del tempo e rendersi conto di essere passati dall’essere in anticipo all’essere in ritardo. Pagare in fretta i caffè e fiondarsi in aula, dove la professoressa sta già spiegando, chiedere scusa, subire lo sguardo un poco rimproverante ma benevolo della professoressa e prendere posto nelle ultime file rimaste libere. Avere fame a metà lezione e dividere il pacco di crackers con i vicini di posto. Finire la lezione e sedersi tutti intorno a un tavolo dell’aula studio per studiare insieme, preparare insieme quell’esame che “passano in pochissimi”. Ripete capitoli, paragrafi, dispense intere, ma anche raccontarsi i problemi, ridere e a volte piangere. Quando l’università chiude, finire tutti al bar, con uno spritz, per brindare all’esame che “insieme passeremo”!
Mi manca tutto questo, ma sono felice di averlo vissuto a lungo come ‘normalità’. Auguro alle matricole e a tutti gli studenti di poter tornare a vivere l’università come la ricordiamo io e la maggior parte degli studenti. Io e i miei coetanei siamo prossimi alla laurea e molti amici l’hanno appena raggiunta. Eppure, trovo che laurearsi a distanza lasci un poco di amaro in bocca. Tagliare questo traguardo in casa, con poche persone ha un ché di amarognolo, sembra quasi sminuire la fatica di questi anni, anonimizzare i ruoli istituzionali e il significato di questo percorso. Inoltre, la laurea magistrale segna tendenzialmente il passaggio dal mondo dell’’istruzione al mondo del lavoro, che quest’anno più che mai ci appare desolato, saturo e in piena crisi economica. Anche per chi si laura quest’anno, dunque, riuscire a non perdere di vista il senso e il significato di questo percorso è una vera sfida.
Sono immensamente grata di aver fatto parte del progetto Mentorship, un progetto che forse proprio in questo periodo storico acquisisce ancora più significato e importanza. Trovo che sia necessario salvare e preservare la parte di inclusione e integrazione in questa dimensione online, che include apparentemente tutti e praticamente nessuno. Cercare di costruire una rete, fatta di comunicazione, persone e aiuti concreti non solo per gli studenti stranieri, ma per tutto il mondo accademico che la DAD ha frammentato e slegato, deve essere una priorità per non perdere per sempre il significato dell’università come esperienza di vita.